Italia decade sempre di più; la guerra finanziaria europea e mondiale stanno determinando una forte diminuzione dei commerci e quindi della ricchezza.
Il dibattito sui temi economici che arriva dai mass media in Italia è talmente distorto, ideologico e in contrasto con i dati, da rendere urgente operazioni di divulgazione che ristabiliscano semplici verità, spesso di una banalità sconcertante: “È strano come, vista dal basso, una discesa somigli ad una salita”.
Passando all’economia, lo stesso principio si traduce nel fatto che un taglio della spesa pubblica (denaro in uscita) è un taglio dei redditi (denaro in entrata) di qualche dipendente o fornitore pubblico; il debito pubblico è anche credito, ossia ricchezza, per qualcun altro; se una moneta si svaluta ce n’è un’altra che si rivaluta, e così via. Per uno che impoverisce c’è sempre qualcun’altro che diventa ricco.
Armato di queste semplici verità, cominciamo a fare la guerra ai tanti luoghi comuni, che sentiamo fino allo sfinimento in qualsiasi talk-show televisivo, ma anche nelle dichiarazioni di molti politici, di destra come di sinistra.
Cominciamo col demolire la “beatificazione” degli investimenti esteri, che tutti sembrano desiderare dimenticando che questi investimenti non sono altro che l’acquisizione di società italiane profittevoli (difficilmente gli investitori esteri fanno beneficenza), cui seguiranno in futuro riduzioni nel reddito nazionale, quando i profitti verranno trasferiti al nuovo proprietario all’estero.
Si passa poi a ricordare che un Paese che basi la sua crescita sulle esportazioni, generando un surplus commerciale, ha bisogno di almeno un altro Paese disponibile ad avere un deficit commerciale. Squilibri commerciali si rispecchiano in squilibri finanziari: se l’Italia compra più merci dalla Germania di quante non riesca a venderne, vedrà aumentare il suo debito estero netto. Il surplus commerciale si può sostenere solo fin quando il Paese in surplus è disposto a finanziare i suoi partners. E una volta creati gli squilibri commerciali, se si pretende che i debitori rimborsino i loro debiti, i Paesi in deficit dovranno sottrarre risorse da indirizzare all’estero, generando una recessione che a sua volta ridurrà gli acquisti dal Paese in surplus, che a sua volta vedrà sì aumentare i redditi dei creditori, ma vedrà anche crollare le vendite delle sue imprese. Né si può proporre a tutti i Paesi in deficit di adottare a loro volta politiche di crescita basate sulle esportazioni: se tutti esportano, chi acquista?
L’impianto istituzionale che governa la zona euro è destinato al fallimento, come già autorevoli economisti avevano previsto prima della sua istituzione, per la mancanza di meccanismi di aggiustamento a fronte degli inevitabili squilibri che emergono in un’area che adotta una valuta unica ma che ha tassi di inflazione e livelli di sviluppo differenti, e mercati del lavoro non integrati.
Se i Paesi dell’area euro avessero voluto effettivamente perseguire gli obiettivi dell’unificazione, in primis garantire lavoro e benessere ai cittadini europei, le priorità politiche sarebbero state altre, e non si sarebbero tollerate politiche neo-mercantiliste che non potevano che generare squilibri insanabili. La crisi della zona euro è quindi prima di tutto una crisi politica, che discende dalla mancata volontà dei partecipanti di trovare soluzioni cooperative.
Stando così le cose, sarà inevitabile il tramonto dell’euro ed il ritorno a valute nazionali, con una previsione di svalutazione della neo-lira dell’ordine del 20% sul neo-marco, o meglio con un modesto apprezzamento del neo-marco sulle altre valute della periferia. Con il ritorno a valute nazionali è possibile – ma non scontato – il ritorno alla sovranità monetaria e alla possibilità di finanziare deficit pubblici a basso costo, come già in Italia fino al “divorzio” del 1981 tra banca centrale e Tesoro. Ripristinando il controllo sulle modalità del finanziamento dei deficit pubblici, si può finalmente tornare ad indirizzare la politica economica verso quella che ci sembra la priorità assoluta: l’eliminazione della povertà e della disoccupazione.
Quel che ho appena detto potrebbe sembrare anti-europeo, tutt’altro ; ma è quello di proporre nuove istituzioni – in particolare nuovi meccanismi di gestione delle valute – che consentano la cooperazione tra i Paesi europei verso uno sviluppo equilibrato dei singoli Paesi.
Non si è certo europeisti continuando a difendere le attuali istituzioni europee perpetuando meccanismi di salvaguardia dei creditori (i sistemi finanziari dei Paesi centrali) a danno dei Paesi periferici, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi in Grecia, Portogallo, Spagna e sempre di più anche in Italia.
E non stà certo nei “populismi nazionalistici” la soluzione degli attuali problemi europei. Ora la recente unificazione bancaria sotto il controllo della BCE, che in sintesi significa perdita definitiva di sovranità monetaria e finanziaria nazionali, se non sarà seguita velocemente dal cambio di rotta delle politiche economiche europee, tendenti alla cooperazione fra Paesi per il riequilibrio finanziario e uno sviluppo equilibrato dei singoli Paesi; se prevarranno ancora gli egoismi di Stato il progetto di Euro e di Europa consideriamolo miseramente fallito.
Poiché noi, come Italia, stiamo andando in senso contrario a quello che il buonsenso suggerirebbe, prepariamoci al peggio. L’Italia diventerà serva d’Europa e Noi schiavi dei Teutonici.