Rimpiangiamo la monarchia.

platone di raffaello

Tutti siamo soliti pensare a Montesquieu come ad uno dei padri della moderna concezione dello Stato e in effetti la sua teoria della divisione dei poteri è un prezioso principio di buon governo. Tuttavia molti sarebbero sorpresi di sapere che per questo filosofo il regime ideale non è la democrazia, di cui sembra essere il padre, ma la monarchia. Proprio quella monarchia francese assoluta in cui era nato e che ancora dominava la Francia quando lui morì.

Il fatto si spiega tenendo conto che egli aveva sotto gli occhi una nazione con un forte senso di decenza. Il re aveva un potere assoluto ma era lungi dall’abusarne, tanto che, nella concezione di Montesquieu, nella monarchia, nel quadro di leggi stabilite, l’individuo è libero anche più che in democrazia, dove il moralismo del popolo può divenire opprimente. Infine la monarchia si distingue dal dispotismo perché mentre quest’ultimo riposa sulla paura che il dittatore incute a tutti, il sovrano  fonda il suo potere sul consenso e sul senso del dovere dei sudditi. Anche per ambizione, gli stessi aristocratici che gli fanno corona desiderano piacergli e dimostrarsi degni della sua stima. In una parola, il collante dell’intero Paese è il sentimento dell’onore che domina tutti, re compreso.

Qui non si tratta tanto di sostenere teorie che oggi suonano più sorprendenti che convincenti, quanto di notare perché un pensatore come Raymond Aron ha considerato Montesquieu uno dei padri della moderna sociologia. Pur essendo il più noto sostenitore della teoria della divisione dei poteri – cioè dello strumento tecnico fondamentale per evitare l’assolutismo – il giurista francese era infatti molto sensibile al dato (anche economico e climatico) della società cui si riferiva. Ciò che egli sostanzialmente diceva di Luigi XIV, del Reggente e di Luigi XV non l’avrebbe certo detto di Ivan il Terribile. Ed è a questo punto che si inserisce un problema riguardante l’Italia attuale.

Il nostro Paese realizza una delle profezie del pensatore francese. La nostra democrazia, soprattutto dall’inizio degli Anni Novanta, si fonda sul senso del dovere, sulla morale, sull’austerità e su un bigottismo legale che sfocia nel giustizialismo.

Queste spinte finiscono naturalmente col limitare la libertà dei cittadini e infatti viviamo in un soffocante ambiente mentale vagamente quacchero. Inoltre, dal momento che il potere giudiziario sembra non conoscere limiti, tanto da prevalere nettamente sugli altri due, anche per questo verso la libertà dei cittadini è in pericolo.

Di fronte a tanti guasti ci si può chiedere se ci siano ancora speranze. Tuttavia la storia fornisce qualche incoraggiamento. Gli eccessi finiscono col suscitare reazioni. Se il Seicento è stato tanto cattolico e morale, è perché l’Europa era rimasta inorridita dalle guerre e dalle crudeltà del Cinquecento. Se il Settecento è stato libertino e irreligioso, è perché era stanco di un Seicento codino e conformista. Se l’Ottocento è stato di nuovo bigotto, è stato per reazione all’Illuminismo. Insomma, gli abusi finiscono col curare sé stessi.

È vero che nel 1993 un Parlamento intimidito e penitente, modificando l’articolo 68 della Costituzione, si è tanto volontariamente quanto scioccamente spogliato di ogni seria difesa contro le possibili incursioni del potere giudiziario; è vero che la sinistra ha continuato a difendere la magistratura perché questa è sempre stata strabica, in campo politico: ma alla lunga la stessa sinistra forse si accorgerà di essere esposta agli stessi rischi che oggi potrebbero far soccombere i suoi avversari.

Gli stessi abusi di toghe ebbre di un potere senza limiti indurrebbero la politica nel suo complesso, e per essa il Parlamento, a tagliare le unghie a chi vuol troppo graffiare.

Meno speranze possiamo avere riguardo al fatto che il popolo italiano – fra i più furbi e spregiudicati d’Europa – guarisca da un moralismo ingenuo e vagamente giacobino, che gli fa rimpiangere Piazza della Concordia quando ancora si chiamava Piazza della Rivoluzione. Meglio tagliare una testa di troppo che lasciar libero un colpevole.

Una giustizia che funziona male non è avvertita come uno dei nostri grandi mali perché le sue malefatte non si abbattono su tutti contemporaneamente ma sui singoli: e finché non ne sono danneggiati personalmente, finché magari non finiscono in galera da innocenti, i cittadini continuano a pensare che chi si lamenta esagera. Si arriva al delirio di proclamare che le sentenze non si possono criticare, quasi fossero sempre e comunque espressione di quella Giustizia di cui neanche la magistratura potrebbe ardire di essere l’interprete. Già la Legalità è spesso parecchio di più di ciò che è capace di realizzare.

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